domenica 7 agosto 2016

CARL GUSTAV JUNG E L'INTERPRETAZIONE PSICANALITICA DELL'ALCHIMIA

Di Enrica Perruchietti
Sembra che il destino di Jung come interprete dell’alchimia fossero scritto nelle stelle. Ma non si sarebbe trattato di qualche influsso astrale, bensì di una curiosa coincidenza “karmica”. Jung poteva infatti rivendicare una discendenza diretta da Goethe in quanto suo nonno sarebbe stato un figlio illegittimo del famoso poeta tedesco. 







Proprio questa leggendaria parentela avrebbe fatalmente indirizzato Jung a proseguire i lavori e le ricerche lasciate incompiute dai suoi predecessori; come un eroe dei romanzi di G. Meyrink, la discendenza unisce con legami fatali lo psichiatra svizzero ai suoi antenati. Jung venne anche a scoprire che un suo avo, il medico e giurista Carl Jung, morto nel 1645, era stato plausibilmente in contatto con gli scritti esoterici di Michael Maier, uno dei padri fondatori dei Rosacroce, e di Gerardus Dorneus, un dichiarato seguace di Paracelso, che si era occupato, molto più di tutti gli altri alchimisti, del processo di individuazione.

Considerando che gran parte della sua vita era stata dedicata allo studio del simbolismo alchemico e al problema della sintesi degli opposti, Jung giunse a ritenere probabile un particolare influsso “sanguineo”: “ho la netta sensazione”, avrebbe rivelato nelle sue memorie, “di essere sotto l’influenza di cose o problemi che furono lasciati incompiuti o senza risposta dai miei genitori, dai miei nonni, e anche dai miei più lontani antenati. Spesso sembra che vi sia in famiglia un karma impersonale che passa dai genitori ai figli. Mi è sempre sembrato di dover rispondere a problemi che il destino aveva posto ai miei antenati, e che non avevano avuto ancora risposta; o di dover portare a compimento, o anche soltanto continuare, cose che le età precedenti avevano lasciato incompiute”. La scoperta della parentela con Goethe lo aveva impressionato “in quanto sembrava rafforzare e al tempo stesso spiegare le mie singolari reazioni al Faust. E’ vero che non credevo nella reincarnazione, ma il concetto che gli indiani chiamano karma mi era istintivamente familiare […] allora […] non sapevo […] che il futuro è preparato nell’inconscio già molto tempo prima, e che perciò può essere indovinato dai chiaroveggenti”. Il fascino che il Faust esercitava su Jung non era dovuto soltanto a questo legame di “sangue”; se Jung considerava il proprio lavoro sull’alchimia come un “segno” della propria “relazione interiore con Goethe”, la lettura giovanile del Faust gli aveva rivelato l’universo della filosofia ermetica, svelandogli anche il problema del male che avrebbe approfondito nella formulazione della teoria sulla quaternità divina, ovvero della reintegrazione del diavolo in Dio e della conciliazione dei contrari.
La scoperta dell’alchimia
Jung si occupò dell’alchimia per quasi trent’anni, a partire dal 1928 – quando il missionario protestante e sinologo Richard Wilhelm gli inviò il trattato taoista Il segreto del fiore d’oro con la preghiera di un commento – sino alla vigilia della morte. La novità e l’importanza delle ricerche junghiane consistono nell’aver stabilito che l’inconscio persegue processi che si esprimono attraverso un simbolismo alchemico e che tendono a risultati psichici omologabili ai risultati delle operazioni ermetiche. Nell’intimo dell’inconscio avrebbero luogo processi che somigliano in modo sorprendente alle tappe di un’operazione spirituale – gnosi, mistica, alchimia – che non si dà nel mondo dell’esperienza profana e che, al contrario, rompe radicalmente con il mondo profano: “Notai ben presto” rivelò Jung nella sua autobiografia, “che la psicologia analitica concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo. Naturalmente questa fu per me una scoperta importante: avevo trovato l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio”. Nel 1914, la psicologia aveva già inaugurato lo studio dell’alchimia con la pubblicazione dell’opera di uno dei più brillanti allievi di Freud, Herbert Silberer (che si suicidò in seguito alla rottura con il maestro). Silberer aveva posto per primo l’attenzione sulla possibilità di individuare connessioni feconde tra l’alchimia e la psicologia. Ma Jung non era rimasto particolarmente attratto dalle conclusioni del collega. Questa iniziale sottovalutazione dell’alchimia cedette presto il passo a un crescente e ininterrotto interesse per essa, riscontrabile a pieno nella ricostruzione autobiografica: “Solo dopo aver letto Il fiore d’oro […] cominciai a intendere la natura dell’alchimia. Ero desideroso di avere una più diretta conoscenza degli alchimisti, e diedi incarico a un libraio di Monaco di tenermi al corrente di qualsiasi libro di alchimia gli capitasse. Poco dopo ricevetti il primo di essi, Artis Auriferae Volumina Duo (1593), una vasta raccolta, tra i quali un certo numero di classici dell’alchimia. Lasciai questo libro da parte, quasi senza toccarlo, per circa due anni. Di tanto in tanto davo un’occhiata alle figure, e ogni volta pensavo: ‘Signore Iddio, che assurdità! Non se ne capisce nulla!’ Ma non me ne potevo staccare e decisi di impegnarmi più a fondo”. L’alchimia divenne la chiave di volta del suo sistema e rappresentò il superamento di una crisi professionale, di un’imbarazzante aporia dovuta alla mancanza di prove a sostegno della teoria dell’inconscio collettivo, i cui risultati, fondati su studi protrattisi per quindici anni, erano riconosciuti dallo stesso Jung come “campati in aria”, in attesa di un riscontro scientifico, di una prova che ne suffragasse la validità. Jung, dunque, iniziò le sue ricerche partendo da un testo di alchimia orientale e, sebbene si concentrò principalmente sull’alchimia occidentale, egli ebbe modo di conoscere il legame dell’alchimia orientale con lo yoga, il tantrismo e il taoismo. Nel commento al trattato cinese troviamo infatti i temi tipici dell’alchimia orientale, le pratiche dello yoga e il pranayama, la creazione del corpo immortale, la teoria del centro, i mandala, la coincidentia oppositorum (anche se per Jung l’unione degli opposti è interpretata come “un processo di sviluppo psichico che si esprime in simboli”). Il testo inviatogli da Wilhelm conteneva quei passi che lo psicologo zurighese aveva cercato invano negli gnostici e divenne l’occasione tanto agognata per poter pubblicare, almeno in forma provvisoria, alcuni risultati fondamentali delle sue ricerche. Soltanto in un secondo tempo, in seguito allo studio dei trattati latini, Jung si rese conto dell’importanza fondamentale del carattere alchemico di quel trattato.
Dalla gnosi all’alchimia
L’incontro con l’alchimia gli fornì quindi le basi storiche che fino a quel momento aveva inutilmente cercato soltanto nello gnosticismo. La tesi di laurea sull’analisi delle capacità medianiche della giovanissima cugina Elena, trovarono continuazione nello studio dell’ermetismo. Lamentando l’incertezza scientifica degli studi conseguiti, tra il 1918 e il 1926 aveva iniziato ad approfondire lo studio della letteratura gnostica poiché in essa ritrovava un confronto con il mondo originario dell’inconscio; gli gnostici avevano avuto infatti a che fare con i contenuti dell’inconscio, “con immagini che erano chiaramente contaminate dal mondo degli istinti […] Ma gli gnostici erano troppo lontani perché mi fosse possibile stabilire un qualsiasi legame con loro circa i miei problemi […] Ma quando cominciai a capire l’alchimia mi resi conto che rappresentava il legame storico con lo gnosticismo, e che perciò c’era una continuità tra il passato e il presente. Fondata sulla filosofia naturale del medioevo, l’alchimia costituiva un ponte verso il passato, con lo gnosticismo, e verso il futuro con la moderna psicologia dell’inconscio”. L’Ars si rivelò agli occhi di Jung come “l’anello di congiunzione, da tanto tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili nell’uomo d’oggi”. Jung era colpito dall’analogia tra il simbolismo onirico – sogni, visioni ad occhi aperti, allucinazioni – o disegni spontanei di alcuni suoi pazienti e il simbolismo alchemico; egli accordava un’importanza capitale all’interpretazione dei sogni, “questa mitologia mascherata dell’uomo moderno” come sarebbe stata definita da Mircea Eliade, il massimo storico delle religioni. L’ermeneutica eliadiana sull’alchimia, seppur autonoma e precedente agli studi dello psicologo svizzero, in quanto frutto di un complesso percorso scientifico diverso e indipendente, più vicino ai Tradizionalisti Evola, Guenon, Coomaraswamy, Needham e ad occultisti quali Steiner, è stata spesso rapportata, seppur impropriamente, a quella junghiana.
Il metodo psicologico
Per comprendere il significato e la funzione delle immagini oniriche, Jung intraprese con perseveranza lo studio degli scritti alchemici classici; per quindici anni svolse le sue ricerche senza pubblicare niente ed evitando di parlarne sia con i suoi pazienti, per evitare di influenzarli, sia con i suoi collaboratori per sfuggire il rischio di suggestione. A differenza però del metodo storico-fenomenologico utilizzato da Eliade nelle sue ricerche sull’alchimia, del metodo ermeneutico di filosofi quali T. Burkhardt e delle analisi esoteriche di autori come Evola, Guénon, Meyrink, etc., Jung apparve sempre memore del suo ruolo di psichiatra: non intendeva andare oltre il contenuto psicologico dell’esperienza umana e non si pose né il problema della trascendenza né il problema della realtà di Dio. Jung considerava l’esperienza religiosa vera, reale, ma su di essa non diede alcun giudizio di valore; allo stesso modo egli considerava le operazioni alchemiche reali, ma questa realtà è psicologica, non fisica, né tantomeno metafisica.
La conciliazione dei contrari
Jung ha definito l’alchimia una tecnica spirituale in un periodo storico in cui essa era considerata, eccezion fatta per gli ambienti esoterici e per qualche filosofo, una mera pre-chimica, una scienza “embrionale” sperimentale. Ma l’alchimia era e rimase, per lo psichiatra svizzero, la proiezione di un dramma cosmico e spirituale in termini di laboratorio; essa è una proiezione degli archetipi e dell’inconscio collettivo sulla Materia, è l’opera finalizzata alla liberazione dell’anima umana dalla materia e all’apocatastasi, alla rigenerazione e salvezza finale del Cosmo: essa prolunga e compensa il cristianesimo che ha salvato l’uomo ma non la Natura. L’alchimista sogna di sanare il Mondo nella sua totalità, riconducendo ad unità gli opposti, reintegrando il diavolo, il Male, in Dio. Sul piano psicologico si tratta di lottare con Satana e di vincerlo, di assimilarlo, cioè, alla coscienza. In tutta la sua immensa produzione scientifica, Jung sembra essere ossessionato dalla reintegrazione degli opposti. A suo parere l’uomo non può raggiungere l’unità se non in quanto riesce a superare continuamente i conflitti che lo lacerano interiormente. Come ha giustamente rilevato Eliade, la reintegrazione dei contrari è la chiave di volta dell’intero sistema junghiano. Ed è stata la coincidentia oppositorum a spingere Jung a interessarsi alle discipline orientali che gli rivelavano i mezzi per trascendere le molteplici polarità per conseguire l’unità spirituale. L’opus aveva pertanto il duplice compito di liberare l’anima mundi, lo spiritus mercurius imprigionato nella Materia e di guarire il Cosmo; ma ciò che gli alchimisti chiamavano “anima” era in realtà il “Sé”, mentre la “materia” era in effetti la loro vita psichica. Ora, il compito dell’opus era di trasfigurare e redimere questa materia, di ottenere la pietra filosofale, il corpo di gloria. Se Cristo era il Filius Microcosmi che aveva salvato soltanto l’uomo, il lapis rappresentava il Filius Macrocosmi che avrebbe condotto a redenzione il cosmo intero. La tradizione dell’apocatastasi di Origene, Gregorio di Nissa e Schelling rivive nell’obbiettivo dell’alchimia che a livello psicologico rappresenta anche il processo di individuazione attraverso il quale si diviene Sé. Lettore attento di I. Kant fin dalla giovinezza, Jung aveva imparato la lezione della Critica della ragion pura, e ha voluto arrestare le proprie ricerche alle soglie della “tentazione metafisica”, per evitare di cadere oltre la propria competenza scientifica. Egli non volle permettersi di ipostatizzare il noumeno kantiano riempiendolo di una verità metafisica o teologica; ciò gli impedì di esprimere le proprie credenze personali, soggettive, che esulano dall’ambito psichiatrico. Jung partì così da una prospettiva universalista per approdare ad un’antropologia applicata; il suo empirismo lo portava a preoccuparsi dell’uomo concreto, ovvero dei suoi pazienti. Per Jung il mito ha senso solo come problema dell’uomo interiore: la psicologia parte dalla vita psichica individuale e per interpretarla fa riferimento alla mitologia e al “serbatoio” simbolico dell’umanità.
Il rifiuto dell’iniziazione
Sebbene citasse esoteristi quali Meyrink ed Evola, Jung prese le distanze dalle interpretazioni esoteriche contemporanee dell’alchimia, ravvisando in esse insegnamenti oscuri e pericolosi (in un certo senso fu in parte fedele alla promessa che Freud gli chiese di fargli prima della rottura, ovvero di combattere l’occultismo: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo” gli chiese un giorno Freud. Alla domanda sorpresa rispetto a che cosa dovesse farne un baluardo, Freud rispose: “Contro la nera marea di fango […] dell’occultismo”!). Il proposito di chiarimento scientifico da parte di Jung, il desiderio di tradurre qualsiasi elemento religioso e alchemico in termini scientifici, chiari, contro il pericolo di deviazioni esoteriche, si scontra con le posizioni scientifiche del periodo (prima fra tutte quella di Eliade) che invece Jung, da buon kantiano, intendeva combattere con spirito empirico e rigore scettico. Niente di più distante dalle primissime accuse di misticismo mossegli dai colleghi psichiatri in seguito alla rottura con Freud, rottura che lo vide emarginato dal campo accademico per alcuni anni. Jung non era interessato ad alcun tipo di “iniziazione”, e questo suo atteggiamento diffidente nei confronti dell’iniziazione si sarebbe rivelato a pieno durante il suo viaggio in India nel 1938, quasi una fuga dall’intenso studio dell’alchimia. Se molti pensatori, come Eliade ed Hesse, hanno scoperto le dottrine esoteriche proprio durante il soggiorno in India, Jung non volle né approfondire lo studio dell’ermetismo sul suolo indiano, né confrontarsi con yogin o saggi indiani. Egli avrebbe raccontato nelle sue memorie di aver cercato accuratamente di evitare d’incontrare i “cosiddetti ‘santoni’”, perché doveva elaborare la sua verità, una verità personale, e non voleva accettare da altri ciò che non avrebbe potuto raggiungere con le sue sole forze: “mi sarebbe parso un furto se avessi appreso dai santoni la loro verità per farla mia. La loro saggezza appartiene a loro, e a me appartiene soltanto ciò che procede da me stesso. Come europeo non posso prendere nulla in prestito dall’Oriente, ma devo plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisce il mio intimo o mi apporta la natura”. Con questa ammissione “socratica”, Jung sembra eludere qualsiasi tipo di dialogo interculturale, qualsiasi ricerca conoscitiva, filosofica, religiosa che non scaturisca dell’inconscio.
Le critiche dei Tradizionalisti
Non a caso meritò le critiche caustiche dei Tradizionalisti e di numerosi filosofi e studiosi quali Titus Burckhardt e Joseph Needham. Celebri le ripetute critiche di Guénon al misticismo e a qualunque interpretazione “psicologica” della metafisica e dell’alchimia (critica ante litteram agli studi junghiani sull’alchimia, ripresa successivamente da Evola). La metafisica è per definizione al di là dei fenomeni, essendo il suo dominio il soprannaturale; gli stati “iniziatici” di cui parla Guénon non hanno nulla di “psicologico”: “la psicologia […] non può aver presa che su stati umani”, stati che invece esulano dal campo metafisico, a cui appartiene l’alchimia. L’esoterista francese si trovò costretto a chiarire in questo senso la possibile comparsa di fenomeni speciali durante il lavoro di realizzazione metasifica, ovvero le siddhi, i poteri prodigiosi dello yoga e dell’alchimia indiana. Questi fenomeni non possono in alcun modo essere spiegati come proiezioni psichiche; al contrario, si producono “in maniera del tutto accidentale […] ed un tale evento è piuttosto fastidioso, giacché le cose di questo genere non possono essere che d’ostacolo a colui che fosse tentato di annettervi qualche importanza”. Similmente, Evola ebbe modo di liquidare l’ermeneutica junghiana sia riguardo il tantrismo e il mysterium conjunctionis, sia specificamente riguardo l’alchimia. Jung avrebbe interpretato la coincidentia oppositorum “nei termini divaganti di una unione del conscio col famoso inconscio, mentre si tratta di qualcosa di assai più profondo e serio”, riducendo la sintesi degli opposti a proiezioni mentali dell’inconscio collettivo e ad “esigenze” che nell’uomo “la parte oscura e atavica della psiche farebbe valere di contro a quella conscia e personale”, per cui: “non è solo evidente una confusione di termini ma, attraverso l’abusato concetto dell’inconscio e la mobilitazione di una fenomenologia da psicopatici, si riconferma la generale tendenza moderna a ricondurre ogni cosa a misure semplicemente umane […] Di fatto, tutte le interpretazioni di Jung finiscono su di un piano molto banale, e la sua intuizione della realtà sovraindividuale ed eterna degli ‘archetipi’ […] si vanifica o degrada nei termini di qualcosa di contraffatto, causa una deformazione professionale di mentalità […] e la mancanza di adeguati punti dottrinali di riferimento”. Riguardo invece allo studio dell’alchimia, secondo Evola Jung e la sua scuola avrebbero visto nell’Ars solo delle “farneticazioni e si sarebbero perseguite delle chimere se essa non dovesse essere riportata a ‘proiezioni’ nelle cose di contenuti psichici, specie dell’inconscio, e se nei suoi procedimenti considerati non fosse stato prefigurato confusamente quello che Jung chiama ‘il processo di individuazione’, ossia il processo in cui si esprime una tendenza profonda verso il compimento dell’essere individuale manifestatesi, peraltro, anche in altre, più riconoscibili forme”. L’interpretazione “ermetica” si differenzia, infatti, da quella psicanalitica in quanto essa “sorpassa” il piano della semplice psicologia riferendo i simboli alchemici a delle “realtà interiori” e vede nelle pratiche dell’opus la “descrizione di operazioni a carattere autenticamente iniziatico. Non si tratterebbe, pertanto, di una fantasmagoria prodotta quasi coattivamente dalle forze dell’inconscio e tale che della sua vera natura gli stessi alchimisti non si rendevano conto; ci si troverebbe invece nel dominio di una scienza avente sue precise strutture, scienza non meno reale per il fatto di non avere a che fare con cose materiali ma di essere essenzialmente una ‘scienza spirituale’”. Infine, Evola criticò la sfrontatezza junghiana che si celava dietro un’inconsistente sicurezza che gli esperimenti alchemici fossero solo frutto della fantasia, leggenda: “E’ al di là di ogni dubbio che una vera tintura o un oro artificiale non furono mai prodotti durante i molti secoli di seria e tenace applicazione. Ci sembra quindi lecito chiedere: che cosa ha indotto gli antichi alchimisti a proseguire indefessamente nel loro lavoro […] se tutta la loro impresa era irrimediabilmente disperata?”, si domandava Jung in Psicologia e Alchimia (opera che contiene la summa delle ricerche junghiane sull’alchimia). Da un’ottica diversa ma con tono simile si sono espressi Needham e Burckhardt; Needham ha ritenuto che Jung volesse ridurre la storia dell’alchimia e la storia delle religioni ad una serie di manifestazioni di “alienazione mentale, vale a dire ad una storia della patologia, e ridurre i contenuti dell’alchimia a ‘neurotic and psychotic content’”. Su questa linea Titus Burckhardt, impegnato nella difesa di una interpretazione spiritualistica dell’alchimia, ha messo in guardia dai “pericoli” dell’impostazione junghiana relativa alla trattazione generale delle religioni e in particolare a quella dell’alchimia. Tra questi “pericoli” egli segnala “il non saper distinguere i simboli genuini dalle distorsioni dei simboli stessi; un esempio è l’equiparare il mandala dell’estremo oriente ai dipinti concentrici degli alienati mentali”.
Proiezioni psichiche involontarie
Jung rettificò la concezione accademica che faceva dell’alchimia uno stadio embrionale della chimica, spiegando la nascita della chimica dalla destrutturazione e dalla perdita del significato originario dell’Ars. L’alchimia nasce e si sviluppa come tecnica al tempo stesso spirituale e operativa e la causa del suo declino sarebbe da rinvenire nella sua oscurità, in quanto il suo metodo “obscurum per obscurius, ignotum per ignotius” mal si conciliava con lo spirito dell’illuminismo e con le scienze empiriche che si andavano perfezionando nel corso del diciottesimo secolo. La disgregazione interna dell’alchimia sarebbe cominciata però un secolo prima “quando molti alchimisti avevano abbandonato alambicchi e crogioli per dedicarsi esclusivamente alla filosofia (ermetica). Allora il ‘chimico’ si separò dal ‘filosofo ermetico’. La chimica divenne una scienza naturale; la filosofia ermetica abbandonò le sue basi empiriche e si smarrì in allegorie e speculazioni pletoriche e prive di contenuto, che sopravvissero unicamente grazie al ricordo dei tempi migliori”. Questi “tempi migliori” sarebbero stati quelli in cui l’adepto aveva lottato “realmente” con i problemi della materia, “quando la coscienza indagatrice s’era trovata davanti allo spazio oscuro dell’ignoto e aveva creduto di ravvisarvi figure e leggi, che tuttavia non avevano origine nella materia, bensì nell’anima”; da questo punto di vista la disamina junghiana introduce il concetto fondamentale di “proiezione” per interpretare in termini psicologici il fine e il processo alchemico. Così “tutto ciò che è ignoto e vacuo viene riempito da proiezioni psicologiche” e ciò che l’alchimista crede di riconoscere nella materia è invece costituito, secondo Jung, dai “dati del proprio inconscio che egli vi proietta”. L’adepto vede e scopre nella materia qualità e significati che solo “apparentemente” le appartengono, “ma la cui natura psichica è completamente inconscia a chi osserva”. Secondo Jung all’alchimista era ignota “la vera natura della materia”, e tentando inutilmente di indagarla egli “proiettava sull’oscurità della materia, per illuminarla, l’inconscio. Per spiegare il mistero della materia, proiettava un altro mistero, e precisamente il proprio retroscena psichico sconosciuto, su ciò che doveva essere spiegato: ‘Obscurium per obscurius, ignotum per ignotius’! Questo non era, beninteso, un metodo intenzionale, ma un accadimento involontario. Una ‘proiezione’, a rigore, non viene mai fatta: ‘avviene’, in essa ci si imbatte. Nell’oscurità di un fatto esteriore scopro, senza riconoscerla come tale, la mia vita interiore, o psichica”. Definire l’alchimia, allo stesso modo dell’astrologia, come un complesso di proiezioni che avvengono ogni qual volta l’uomo tenta di esplorare “una vuota oscurità e involontariamente la riempie di figurazioni vive”, significa però invalidare il preteso senso spirituale dell’alchimia e far entrare dalla finestra lo spirito positivista e riduzionista che ci si era premuniti in buona fede di far uscire dalla porta! E così, durante il lavoro pratico, l’alchimista si sarebbe imbattuto anche in “percezioni allucinatorie o visionarie” spiegabili in termini di esperienze reali e non allegorie, con proiezioni, cioè, di contenuti inconsci! L’interpretazione junghiana dell’alchimia pecca pertanto di riduzionismo psicologico ed è per questo motivo che gli esoteristi, i Tradizionalisti e alcuni filosofi gli hanno rimproverato, come abbiamo visto, di aver tradotto in termini psichici un simbolismo e un processo di realizzazione che erano, invece, transpsichici, metafisici. Nonostante la famosa replica di Jung e la difesa dei suoi allievi a tali obiezioni, la lettura psicologica unilaterale distorce il senso originario dell’opus; se è vero che ogni esperienza spirituale implica un’attualità psichica che lo psicologo si sente di dovere di indagare, non si giustifica con ciò un’interpretazione psichica che fa dei fatti metafisici o religiosi soltanto qualcosa di psichico, che riporta cioè i processi e i simboli alchemici a elementi di proiezione dell’inconscio e che, per questo, si ferma sostanzialmente a un piano superficiale dell’indagine scientifica che andrebbe, invece, approfondita e integrata con uno studio filosofico, metafisico ed esoterico dell’oggetto in questione, (anche se non dobbiamo dimenticare che per Jung l’inconscio era “kantianamente” un concetto limite, non riducibile a semplice psichico). Non credendo né alla realtà dei risultati delle pratiche alchemiche, né al valore metafisico della realizzazione ermetica, Jung si è spinto tanto oltre da mistificare lo spirito metafisico della Tradizione Ermetica evoliana interpretandone alcuni passaggi in chiave psicologica e servendosi di essi per dimostrare che l’opera alchimistica consisteva in processi psichici “espressi in linguaggio pseudochimico”!
Alchimia e Cristianesimo
Originali sono invece l’insistenza sul parallelo tra il lapis e il Cristo, di ascendenza gnostica. Riferendosi soprattutto a testi dell’alchimia medievale, o comunque occidentale, Jung si è soffermato sul valore psicologico dell’opus come movimento di compensazione al cristianesimo. Nonostante l’interesse per la filosofia e la religione orientale, Jung ha preferito delimitare i propri studi ai testi occidentali, compiendo soltanto brevi “peregrinazioni” nell’ambito dell’ermetismo indiano (non possiamo dimenticare il suo studio sui mandala). Così in Jung l’Ars si configura come una tecnica di salvezza, una “vera e propria dottrina della redenzione”, in quanto riconosce un significato redentivo al processo d’individuazione, fine ultimo dell’alchimia. Il parallelo con il cristianesimo serve per distinguere tra la formulazione cristiana per cui l’uomo è colui che deve essere redento dal Cristo salvatore (o dalla grazia divina), e quella alchimistica per la quale l’uomo è colui che deve redimere se stesso e il Cosmo. Nel secondo caso l’uomo si assume il compito di liberazione e redenzione dell’anima mundi imprigionata nella materia; ma, “in tutti e due i casi, la redenzione è un’opera. Nel caso cristiano si tratta della vita e della morte dell’uomo-Dio che, in quanto sacrificium unico, provoca la conciliazione dell’uomo bisognoso di redenzione, perso nella materia, con Dio. L’effetto mistico dell’autosacrificio dell’Uomo-Dio si estende generalmente a tutti gli uomini, in modo efficace però agisce soltanto su coloro che si sottomettono alla fede o sono prescelti per grazia”. Qui si inserisce un passaggio obbligato: l’insistenza sui Misteri come anticipazione dell’ideologia cristiana e alchemica basate sul paradigma di sofferenza, morte e resurrezione del dio o del miste. Se nel cristianesimo il credente guarda al suo Redentore sforzandosi di giungere alla sua imitatio, nell’alchimia l’adepto proietta la vicenda drammatica della sofferenza e della morte sulla Materia. Nella disamina junghiana per l’alchimista non è l’uomo a necessitare della redenzione ma, in termini gnostici, “la divinità perduta e dormiente nella materia”, per cui la sua attenzione verte sulla “liberazione di Dio dalle tenebre della materia” e, l’alchimista, in quanto si applica a “quest’opera miracolosa, beneficia, ma incidentalmente, del suo effetto salutare. Egli può affrontare l’opera come persona bisognosa di redenzione, ma sa che la sua redenzione dipende dal successo dell’opera, cioè dal fatto di liberare l’anima divina. A questo scopo ha bisogno di meditazione, digiuno, preghiera”.

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